venerdì 20 marzo 2009

LA "CIVITAS CAPYTIUM" tra Medioevo ed Età Moderna (post di Paola Gugliandolo)



Paola Gugliandolo, studentessa del Corso di Laurea in Lettere Moderne, propone un tema di ricerca molto stimolante, al cui riguardo esistono poche e disorganiche trattazioni scientifiche ed una documentazione ancora da ricostruire e verificare. La persistenza di significative testimonianze mute (come mostra la pagina linkata da Paola: http://www.isolainfesta.it/sgiacomo2007-capizzi.htm), ma anche la ricca tradizione iconografica risalente ai secoli XVI-XIX, stimolano un più approfondito studio della vicenda capitina in età medievale. L'indagine su fonti cronistiche e documentarie edite e carte inedite potrà chiarire molti aspetti delle dinamiche che motivarono l'elevazione della civitas demaniale dell'età normanna al rango comitale in età fridericiana; l'infeudazione a beneficio della famiglia d'Antiochia, la concessione a Pierre d'Auvergne in età angioina e la gestione feudale sino alla seconda metà del Trecento; gli interventi normativi promossi negli ultimi decenni del dominio aragonese per il rilancio economico del territorio ed il tenace impegno della Corona al recupero della sua demanialità negli anni di Alfonso V il Magnanimo; e così via. Nell'attesa che Paola porti avanti la sua indagine ed invii i primi contributi per questo blog, mi auguro che giungano altri interessanti suggestioni.

domenica 15 marzo 2009

Gregorio Magno e Benedetto da Norcia

[Adelaide Ricci di Canapaia]
Con il canto gregoriano alle radici della cultura europea. San Gregorio Magno papa e san Benedetto abate: le sorgenti della Chiesa medievale. Due giganti di semplicità e rigore vissuti fra V e VI secolo

Messale per il Corpus Domini (Napoli, 1450 circa)

Discendente da un’antica famiglia senatoria e nato nel 540 circa, Gregorio ebbe un’istruzione sicuramente di alto livello; la sua ascesa politica lo vide infine, poco più che trentenne, praefectus urbis di Roma (carica paragonabile a quella di sindaco). Poi, però, donò le sue ricchezze alla Chiesa e abbandonò la vita laicale dedicandosi ad opere di carità e fondando monasteri. Nel 578 divenne per nomina del papa (Benedetto I) uno dei sette diaconi di Roma e fu perfino inviato come nunzio presso l’imperatore a Costantinopoli. Cessò il proprio ministero di diacono nel 586 circa e si aggregò quindi alla comunità monastica di S. Andrea ad Clivum Scauri sul Celio, che egli stesso aveva fondata nella propria abitazione e che molto probabilmente seguiva una regola non strettamente benedettina, bensì basata sulle cosiddette regulae mixtae, desunte attingendo da diverse norme e pratiche. Questi pochi anni trascorsi nel monastero furono da lui sempre ricordati come i più felici della sua vita.
Venne eletto papa per acclamazione nel 590, in un momento difficile specialmente nell’Italia attraversata dalle ondate successive della dominazione dei goti, dei bizantini e infine dei longobardi; fra l’altro, proprio in quel periodo a Roma le epidemie avevano decimato la popolazione. Il suo pontificato realizzò un progetto di espansione della latinità e della fede che segnò tutta la storia seguente. Gregorio non era né teologo né filosofo nel vero senso della parola, ma riunì in sé peculiarità tali da meritargli l’appellativo (con cui passò alla storia) di “Magno” e che lo fecero proclamare “dottore della Chiesa”: fu monaco, apostolo, maestro di disciplina, profondo conoscitore del diritto romano, dotato di singolari facoltà organizzative.
Nel suo progetto di riassetto della Chiesa ebbe un ruolo ragguardevole la spinta evangelizzatrice. Intorno al 596 inviò il monaco Agostino con una quarantina di compagni a predicare il vangelo nell’isola britannica, che dopo le invasioni degli angli e dei sassoni era pressoché completamente pagana; a questi pionieri è attribuita la fondazione del monastero di Canterbury, significativamente dedicato ai santi Pietro e Paolo. Ma l’evangelizzazione fu rivolta anche all’interno della Chiesa, specie nei riguardi degli illiterati che, non conoscendo il latino, rimanevano in uno stato di istruzio-ne non elevato e non potevano fruire degli scritti contenuti nei codici: Gregorio non solo promosse nelle chiese l’utilizzo delle immagini (picturae) che permettevano a tutti di “leggere con gli occhi sulle pareti” i testi biblici, ma suggerì anche l’uso della lingua rustica ossia corrente (evidentemente non il latino) nelle omelie ai fedeli e nei sermoni. Ancora, per avvicinare e coinvolgere il popolus cristiano durante la pestilenza del 590, organizzò una processione cittadina che coinvolse l’intera Roma in un ordinato corteo scenografico senza eguali, capace di unire laici e religiosi in una rappresentazione mimata e cantata dell’unità dei credenti.
La sua attenzione si rivolse anche al progresso delle strutture ecclesiastiche, in senso tanto giuridico quanto morale. Perciò riformò il clero arginando soprattutto il commercio venale di beni sacri, ma seppe altresì amministrare il patrimonio della Chiesa in maniera oculata. Fu capace di fronteggiare i longobardi e di stipulare accordi diplomatici. Scrisse diverse opere, fra cui un Liber pastoralis curae (divenuto famosissimo) che dava consigli ai vescovi nella loro missione pastorale. Nei documenti pontifici inserì accanto al proprio nome la formula “servus servorum Dei” (“servo dei servi di Dio”), che rimase elemento costitutivo del titolo papale (lo è ancora oggi).
Fra le tante rappresentazioni medievali, una in particolare mostra la colomba dello Spirito Santo che, posata sulla spalla di Gregorio, gli sussurra all’orecchio la salmodia liturgica, mentre egli prova a cantarla e la detta a due scribi: questa iconografia è legata alla memoria delle riforme liturgiche operate dal pontefice, che riordinò e codificò il repertorio antico introducendo altresì modifiche nel canone della Messa, e a cui pertanto è stata attribuita anche la paternità della monodia sacra cristiana ossia del canto “gregoriano”, riconosciuto come “autentica” salmodia della Chiesa.
Morì nel 604. Circa dieci anni prima, intorno al 593-594, aveva scritto i Dialogi, che costituiscono la fonte principale sulla vita e le opere del monaco santo più famoso del medioevo, Benedetto da Norcia, che all’epoca era morto da una quarantina d’anni.

Gregorio Magno con la colomba dello Spirito Santo che gli detta la salmodia liturgica

Secondo la tradizione, alimentata principalmente dai ricordi gregoriani, Benedetto nacque verso l’anno 480 a Norcia, vicino a Spoleto, da una famiglia benestante. Dopo aver studiato a Roma, di-sgustato dal disordine morale che opprimeva la città si ritirò dapprima ad Affile, tra Fiuggi e Tivoli, poi (forse nel 500) in una grotta (il Sacro Speco) a Subiaco, ove trascorse un periodo di vita eremitica. Poiché accorrevano numerosi discepoli, fondò dodici monasteri nella valle dell’Aniene, indi nel 529 si recò a Cassino con alcuni confratelli e, dopo un’intensa opera di evangelizzazione, edifi-cò il nuovo cenobio di Montecassino. Proprio in questo luogo Totila, rex dei goti, giunse nel 546 per incontrare Benedetto, riconoscendogli santità e virtù. E sempre nei pressi di Montecassino una volta all’anno il santo incontrava sua sorella, santa Scolastica, religiosa anch’essa.
In quegli anni imperversavano le vicende della cosiddetta guerra greco-gotica (535-553), intrapresa dai bizantini per il recupero dell’Italia occupata dagli ostrogoti. Benedetto morì probabilmente nel 547, prima che i conflitti avessero termine.
Con la sua opera, questo santo ci aiuta a riscoprire i tratti del cristianesimo antico anche come vitale elemento dell’identità europea; la sintesi da lui operata tra spiritualità orientale e occidentale ci ricorda quanto sia indispensabile anche oggi il contatto diretto con queste radici, come ha significativamente sottolineato il Concilio Vaticano II (Decreto sull’ecumenismo, 15). Il 24 dicembre 1964 Paolo VI lo ha nominato patrono d’Europa.


Benedetto incontra sua sorella Scolastica

Il monachesimo medievale.
Per tutto il medioevo il monachesimo rappresentò una componente fondamentale per diversi aspetti. L’intera vita sociale fu segnata dalla presenza dei monaci. Fra le diverse esperienze, quella fondata da Benedetto ebbe come culla la penisola italiana e si espanse successivamente in tutta Europa.
La diffusione del monachesimo in occidente era cominciata già dalla fine del IV secolo, privile-giando la vita in comune (cenobio, da koinós ossia “comune” e bíos ovvero “vita”) piuttosto che le forme eremitiche. Le cosiddette regole rimasero a lungo eterogenee e flessibili, unificando pratiche di origine orientale trasmesse per iscritto e consuetudini locali; quella più famosa era l’anonima Regula Magistri (o Regola del Maestro).
La Regola di Benedetto, redatta a Montecassino fra il 530 e il 550, operò una sintesi della pratica e della letteratura monastica precedenti; essa diede un ruolo fondamentale alla comunità, costituente una vera e propria famiglia retta dall’autorità di un abate (ab in aramaico indica il padre) e all’interno della quale doveva vigere una totale condivisione, sul modello della comunità apostolica (“tutto sia comune a tutti”, si legge negli Atti degli Apostoli).
Accanto alla preghiera, il monachesimo benedettino valorizzava il lavoro intellettuale (imprescindibile era la pratica della lectio divina, lettura sapienziale dei testi biblici) e manuale. Il famoso motto “ora et labora” non è certo sufficiente a rendere conto dell’esperienza benedettina così complessa e feconda; peraltro esso non si trova nella Regola e, come tale, è stato formulato soltanto nel secolo XVIII in ambiente bavarese. Parametro fondamentale della vita del monaco era, piuttosto, la stabilitas, concetto articolato che solo in parte si può identificare con la saldezza morale: semplificando, si può dire che ciascun monaco doveva avere dentro di sé il proprio “luogo”, paragonabile a una città ben salda, che prefigura la civitas celeste, il cui valore assoluto è l’amore di Cristo (“nulla anteporre all’amore di Cristo”, Regola, 4, 21); allo stesso modo, i monasteri erano concepiti come anticamera del paradiso, una sorta di isola angelica nel mondo.
I monasteri divennero centri importanti sia per l’economia rurale, organizzando lo sfruttamento delle risorse agricole, sia per la trasmissione culturale, in particolare grazie all’attività degli scriptoria in cui i monaci amanuensi trascrivevano i libri in forma di codice a carte rilegate (ma il libro dell’antichità era stato in forma di rotolo ossia di volumen, da cui il termine “volume”).
Soppiantando in gran parte le regole monastiche precedenti, le comunità benedettine maschili e femminili si diffusero rapidamente in Italia e poi in Europa, divenendo anche strumento utilissimo per l’evangelizzazione dei pagani.
Il pontefice Gregorio Magno diede particolare risalto al monachesimo benedettino, a cominciare dal fondatore, cui dedicò il secondo libro dei Dialogi, descrivendolo, secondo le norme dell’antica agiografia, in toni elevati ed avvolgendolo in una spiccata atmosfera di sacralità.
Gregorio, inoltre, indirizzò i monaci ad assumere un vero e proprio ruolo di “bonifica” morale e materiale nel difficile quadro in cui si trovava l’intera Europa e l’Italia in particolare, lacerata dalla conquista longobarda.
Le vicende dei singoli cenobi intessono il quadro storico del medioevo; si pensi che nel 577, nel corso della loro lenta avanzata lungo la penisola italiana, i longobardi distrussero il complesso di Montecassino e i monaci in fuga verso Roma salvarono il codice contenente la Regola di Benedetto.
L’espansione del cenobitismo benedettino si svolse in gran parte spontaneamente, anche se felicemente inserita in un quadro di forze che almeno in parte la favorirono. Si pensi, ancora, all’importanza rivestita dalle abbazie di Farfa, Nonantola, San Vincenzo al Volturno, Novalesa (in Val di Susa), contemporanee alla ricostruita Montecassino (717).
Nel cuore dei secoli medievali, la forma benedettina si legò alle sorti dell’impero di Carlo Magno e dei suoi successori, che ne favorirono il rafforzamento e ne decretarono la vittoria giuridica: nell’817 le norme benedettine vennero rese obbligatorie per tutte le comunità monastiche dell’Impero, che cessarono così di reggersi attraverso consuetudini separate.
Dalla famiglia primigenia presero corpo diverse consuetudini regolari: cluniacensi (sorti nel 910 presso il monastero di Cluny in Borgogna), cistercensi (monaci bianchi dell’abbazia di Cîteaux, istituita nel 1098), certosini (ordine eremitico fondato nel 1084 nel massiccio desertico della Grande Chartreuse presso Grenoble), vallombrosani (congregazione del monastero di Vallombrosa in provincia di Firenze, approvata nel 1055) e camaldolesi (fondati a Camaldoli presso Arezzo nel 1012 circa, in doppia forma sia eremitica sia cenobitica), che furono tutti l’esito di rivisitazioni e riforme della prima norma dettata da Benedetto.

Qualche spunto dalla Regola di san Benedetto.
“(…) Non antepongano a Cristo assolutamente nulla.
(…) Prima di ogni altra cosa, devi chiedere a Dio con insistenti preghiere che egli voglia condurre a termine le opere di bene da te incominciate (…)
(…) È tempo ormai di levarci dal sonno. Apriamo gli occhi alla luce divina, ascoltiamo attentamente la voce ammonitrice che Dio ci rivolge ogni giorno (…)
(…) Come c’è uno zelo cattivo e amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna.”

sabato 14 marzo 2009

PLACITI CASSINESI e INDOVINELLO VERONESE

PLACITI CASSINESI [960/963]

I (Capua, marzo 960)
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Be-nedicti.

II (Sessa, marzo 963)
Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.

III (Teano, luglio 963)
Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte sancte Marie.

IV (Teano, ottobre 963)
Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.



INDOVINELLO VERONESE [ca. 900]

Se pareba boves
alba pratalia araba
& albo versorio teneba
& negro semen seminaba.

[Spingeva avanti i buoi (le dita)
solcava arando un campo bianco (la carta)
teneva un bianco aratro (la penna d'oca)
e seminava nero seme (l'inchiostro)]

ALCUINO DI YORK (Enigma del lupo, della capra e del cavolo)

[Propositiones ad acuendos juvenes (795 ca.)]

XVIII. PROPOSITIO DE HOMINE et CAPRA et LUPO

Homo quidam debebat ultra fluvium transferre lupum, capram, et fasciculum cauli. Et non potuit aliam navem invenire, nisi quae duos tantum ex ipsis ferre valebat. Praeceptum itaque ei fuerat, ut omnia haec ultra illaesa omnino transferret. Dicat, qui potest, quomodo eis illaesis transire potuit.

XVIII. ENIGMA DEL LUPO, DELLA CAPRA E DEL CAVOLO

Un uomo doveva trasportare sull’altra riva del fiume un lupo, una capra e un cavolo, ma non trovò che una barca capace di portarne due alla volta. Fra l’altro gli era stato ordinato di non procurare alcun danno né agli animali né alla pianta. Chi è capace dica come l’uomo ha potuto trasportarli tutti senza danneggiarli.



XXVI. ENIGMA DEL CANE IN CORSA E DELLA LEPRE IN FUGA

Un campo ha una lunghezza di 150 piedi. Ad una estremità c'era un cane, e nell' altra una lepre. E in effetti il cane si mise in movimento dopo che la stessa, cioè la lepre, cominciò a correre. D'altra parte mentre il cane percorreva 9 piedi in un salto, la lepre ne percorreva 7. Dica, chi vuole, quanti piedi, ovvero quanti salti fecero, il cane inseguitore e la lepre fuggitiva, fino a che questa fu presa.

giovedì 5 marzo 2009

Tardoantico

TARDOANTICO (letture consigliate)

Gli approfondimenti sul mondo tardoantico devono prendere le mosse da P. BROWN, Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, Torino, Einaudi, 1974 e Genesi della tarda antichità, Torino, Einaudi, 2001. L. CRACCO RUGGINI, La fine dell’impero e le trasmigrazioni dei popoli, in La Storia. I grandi problemi dal medioevo all’età contemporanea, a c. di N. Tranfaglia e M. Firpo, II, Il Medioevo, 2, Popoli e strutture politiche, Torino, Utet, 1986, pp. 1-52, propone una trattazione aggiornata ed un profilo della produzione storiografica sul Tardoantico. A.SCHIAVONE, Il mondo tardoantico, in Storia medievale, Roma, Donzelli, 1998, pp. 43-64, H.BRANDT, L’epoca tardoantica, Bologna, Il Mulino, 2005 (da Diocleziano a Giustiniano), e soprattutto P.HEATHER, La caduta dell’Impero Romano. Una nuova storia, Milano, Garzanti, 2006 e J.M.H.SMITH, L’Europa dopo Roma. Una nuova storia culturale (500-1000), Bologna, Il Mulino, 2008, offrono le sintesi più recente e completano l’informazione bibliografica.

Per la formazione dell’Occidente latino-germanico il rinvio d’obbligo è agli interventi di Giovanni Tabacco, compendiati in G.TABACCO-G.G.MERLO, Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 15-119. Sui barbari e i regni romano-barbarici si vedano M.ROUCHE, I regni latino-germanici (secoli V-VIII) e G.FOURNIER, Il regno franco, in La Storia, cit., pp. 89-144. S. GASPARRI, Prima delle nazioni. Popoli, etnie, regni fra Antichità e Medioevo Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997. W.POHL, L’universo barbarico; F.MARAZZI, Dall’impero d’Occidente ai regni germanici; P. GUGLIELMOTTI, I franchi e l’Europa carolingia, in Storia medievale, cit., pp. 65-112 e 175-182, porgono sintesi molto accurate. I recenti saggi di G.ARNALDI, L’Italia e i suoi invasori, Roma-Bari, Laterza, 2002, C.AZZARA, Le invasioni barbariche, Bologna, Il Mulino, 1999 e L’Italia dei barbari, Bologna, Il Mulino, 2002, consegnano un profilo informato ed equilibrato e indicano tutta la bibliografia utile, cui si può aggiungere, per i Vandali, N. FRANCOVICH ONESTI, I Vandali. Lingua e Storia, Roma, Carocci, 2002.

Su tutto il periodo: A. SAITTA, 2000 anni di storia, I, Cristiani e barbari, Roma- Bari, Laterza, 1978; II, Dall’impero di Roma a Bisanzio, ivi, 1979; III, Giustiniano e Maometto (in buona parte dedicato ai regni romano-barbarici), ivi, 1982. Questi volumi presentano una ricchissima trattazione articolata in Lineamenti storici, Documenti, Pagine di critica storica, Prospettive storiografiche.

mercoledì 4 marzo 2009

Ammiano Marcellino, Res gestae libri XXXI

La prima descrizione degli Unni di Attila

Ammiano Marcellino (330ca.-391ca.), nei suoi Res gestae libri XXXI (i primi 13 dei quali perduti) traccia una storia dell'impero romano dall'ascesa di Nerva (96) alla morte di Valente nella Battaglia di Adrianopoli (378) contro i Visigoti, e si pone in continuità con l'opera di Cornelio Tacito (Germania, 98). La critica recente ha rilevato la forza retorica nella sua narrazione e l’impegno nel perseguire un preciso programma religioso e politico pagano, che lo portò a contrapporre Costanzo II a Giuliano l’Apostata, restauratore del paganesimo.

"Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi storici, abita al di là delle paludi Meotiche [zona della Sarmazia corrispondente alla regione dell’attuale Mare di Azov], lungo l’oceano glaciale, e supera ogni limite di barbarie. Siccome hanno l’abitudine di solcare profondamente con un coltello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba, quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle rughe delle cicatrici, invecchiano imberbi, senz’alcuna bellezza e simili ad eunuchi. Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco, né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo tra le loro cosce ed il dorso dei cavalli. Non sono mai protetti da alcun edificio, ma li evitano come tombe separate dalla vita d’ogni giorno. Neppure un tugurio con il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne e selve, abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete. Quando sono lontani dalle loro sedi, non entrano nelle case a meno che non siano costretti da estrema necessita, né ritengono di essere al sicuro trovandosi sotto un tetto. Adoperano vesti di lino oppure fatte di pelli di topi selvatici, né dispongono di una veste per casa e di un’altra per fuori. Ma una volta che abbiano fermato al collo una tunica di colore sbiadito, non la depongono né la mutano finché, logorata dal lungo uso, non sia ridotta a brandelli. Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con pelli caprine e le loro scarpe, poiché non sono state precedentemente modellate, impediscono di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli interessi comuni. Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma, contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò che si oppone a loro. Combattono alle volte se sono provocati ed ingaggiano battaglia in schiere a forma di cuneo con urla confuse e feroci. E come sono armati alla leggera ed assaltano all’improvviso per essere veloci, così, disperdendosi a bella posta in modo repentino, attaccano e corrono qua e là in disordine e provocano gravi stragi. Senza che nessuno li veda, grazie all’eccessiva rapidità, attaccano il vallo e saccheggiano l’accampamento nemico. Potrebbero poi essere considerati senz’alcuna difficoltà i più terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono a distanza con giavellotti forniti, invece che d’una punta di ferro, di ossa aguzze che sono attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percorso rapidamente la distanza che li separa dagli avversari, lottano a corpo a corpo con la spada senz’alcun riguardo per la propria vita. Mentre i nemici fanno attenzione ai colpi di spada, quelli scagliano su di loro lacci in modo che legate le membra degli avversari, tolgono loro la possibilità di cavalcare o di camminare. Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenore di vita. Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono loro da abitazione. Quivi le mogli tessono loro le orribili vesti, qui si accoppiano ai mariti, qui partoriscono ed allevano i figli sino alla pubertà. Se s’interrogano sulla loro origine, nessuno può dare una risposta, dato che è nato in luogo ben lontano da quello in cui è stato concepito ed in una località diversa è stato allevato. Sono infidi ed incostanti nelle tregue, mobilissimi ad ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento ad un violentissimo furore. Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il bene ed il male, sono ambigui ed oscuri quando parlano, né mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione, ma ardono di un’immensa avidità di oro. A tal punto sono mutevoli di temperamento e facili all’ira, che spesso in un sol giorno, senza alcuna provocazione, più volte tradiscono gli amici e nello stesso modo, senza bisogno che alcuno li plachi, si rappacificano".

martedì 3 marzo 2009

SALVIANO DI MARSIGLIA, De Gubernatione Dei

dura fiscalità romana e fuga verso i territori barbarici (V sec.)

Il brano è tratto dal De Gubernatione Dei di Salviano di Marsiglia (400 ca.-480 ca.), che nella sua opera inserì i rapporti tra romani e barbari in un progetto provvidenziale.

[SALVIANO, De gubernatione Dei, V, 4-5, in IDEM, Oeuvres, II, a c. di G. LAGARRIGUE, Sources chrétiennes, 220, Paris, Les Editions du Cerf, 1975, pp. 320-29.]

"Per ciò che riguarda i nostri rapporti coi Goti e coi Vandali, in che cosa ci possiamo ritenere superiori o anche paragonarci a loro? In primo luogo, riferendoci all’amore e alla carità […], quasi tutti i barbari, almeno quelli che appartengono ad una stessa gente e hanno lo stesso re, si amano vicendevolmente, mentre quasi tutti i romani si perseguitano tra loro […]. Ora in molti si esprime una nuova e impensabile deviazione del senso morale: per qualcuno è poco essere felice; è necessario che siano infelici gli altri. Da quest’empia mentalità discende ancora una crudeltà ignota ai barbari e invece familiare ai romani: l’esazione delle imposte permette loro di rovinarsi reciprocamente. Per meglio dire, non reciprocamente: la cosa sarebbe più tollerabile se ciascuno dovesse sopportare quanto avesse fatto soffrire agli altri. Ciò che è più grave, è che molti sono colpiti da pochi, per i quali la riscossione delle imposte è divenuta una rapina e che trasformano i titoli del debito fiscale in una fonte di profitto privato. E non sono soltanto i funzionari più elevati, ma anche gli impiegati dei gradi più bassi; non solo i giudici, ma anche i loro sottoposti. In quali città, anzi in quali municipi e in quali villaggi i curiali non sono altrettanti tiranni? D’altra parte si fanno vanto di questa qualifica, perché essa sembra sinonimo di potenza e di onore. È infatti proprio di tutti i briganti di strada rallegrarsi e inorgoglirsi se vengono considerati più crudeli di quanto non siano in realtà. Quale è dunque il luogo, come dissi, dove i capi delle città non divorino i beni delle vedove e degli orfani e quelli di tutti gli uomini di chiesa? Infatti questi ultimi vengono considerati come orfani e vedove, perché non vogliono difendersi per rispettare i loro voti, o non possono farlo per la loro umiltà e per la loro innocenza. Nessuno di costoro è dunque sicuro e nessuno, eccetto i più potenti, è immune dalla devastazione del latrocinio, se non quelli che sono della stessa stoffa dei briganti. Le cose sono degenerate a tal punto che si salva solo chi è malvagio. Ma in verità, tra tanti che spogliano i buoni, forse ci sono alcuni che prestano soccorso contro questa generale rapina che, come dice la Scrittura, strappano l’indigente e il povero dalle mani del peccatore? (Ps. 82, 4). Non vi è chi operi il bene, forse solo uno (Ps. 14, 3). E la Scrittura dice “forse solo uno” perché la rarità dei buoni è tanto grande che il loro numero sembra ridursi a una sola unità. Chi infatti può recare soccorso agli oppressi e agli afflitti, dal momento che neppure i sacerdoti del Signore sono in grado di resistere alla violenza dei malvagi? Molti di loro, o tacciono o è come se tacessero, anche quando parlano, e molti lo fanno non per mancanza di fermezza, ma di proposito e a ragion veduta […]. Tacciono anche coloro che possono parlare, perché sono indulgenti con i mascalzoni, né vogliono metterli dinanzi alla forza dell’aperta verità, per timore di renderli ancora peggiori. Così, intanto, i poveri sono rovinati, le vedove gemono, gli orfani vengono calpestati, a tal punto che molti di loro, e non di oscuri natali e di raffinata educazione, si rifugiano presso i nemici, per non morire sotto i colpi della pubblica persecuzione, e cercano presso i barbari l’umanità romana, dal momento che non possono sopportare presso i romani la barbara inumanità.E, sebbene siano diversi per usanze, siano diversi per lingua e anche, per così dire, per il fetore che emana dai corpi e dalle vesti dei barbari, preferiscono tuttavia dover sopportare tra i barbari una profonda differenza di costumi, piuttosto che tra i romani una devastante ingiustizia. Perciò, un po’ alla volta, emigrano verso i Goti o i Bagaudi, o verso altri territori dominati dai barbari, né si pentono di essere emigrati; preferiscono vivere liberi sotto un’apparenza di prigionia che vivere prigionieri sotto un’apparenza di libertà".


Re Ostrogoti

CORNELIO TACITO, Germania

Germani senza tradizione urbana (I sec.)

[CORNELIO TACITO, Germania, lib. XVI (98)]

“È noto che i Germani non hanno città e neppure abitazioni vicine le une alle altre. Abitano isolati e sparsi dove li attrae una fonte, un campo, un bosco e fondano i loro villaggi, non come da noi, con edifici vicini e addossati gli uni agli altri, ma circondano ciascuna abitazione di uno spazio libero, sia contro pericoli degli incendi, sia per imperizia nel costruire. Non adoperano pietre o mattoni, ma legname grezzo, senza alcuna cura di eleganza. Usano spalmare diligentemente alcune parti della casa con una terra così fine e lucida che imita le decorazioni a colori”.

CASSIODORO, Variae

Norme sulla divisione delle terre tra Ostrogoti e Romani (V-VI sec.)

[Cassiodori Variae, I, II, 16, in MGH, Auctores Antiquissimi, a c. di Th. Mommsen, Hannover 1894]

"Ci piace riferire come nella ripartizione delle terze (parti delle terre) egli (Teodorico) unì sia i possessi che gli animi dei Romani e dei Goti. In effetti, mentre di solito dalla vicinanza scaturiscono contrasti tra gli uomini, per questi sembra che la comunione dei poderi sia diventata causa di concordia: accade infetti che, vivendo in comune, l'una e l'altra nazione giungano ad avere una sola volontà. Ecco un fatto nuovo e assai lodevole: dalla divisione dei beni è nato l'accordo dei popoli; attraverso i danni si è accresciuta l'amicizia fra i popoli e con la cessione di una parte del suolo si è acquistato un difensore, in modo che la generale sicurezza di tutti i beni possa essere garantita. Una sola legge, una uguale disciplina li unisce".

LEX VISIGOTHORUM

Norme sulla divisione delle terre tra Visigoti e Romani

[Lex Visigothorum, in MGH, Legum Sectio, I, t. I, a c. di K.ZEUMER, Hannover 1902]

"La divisione delle terre o dei boschi tra Goti e Romani non deve essere turbata per nessun motivo, se è stata regolarmente approvata, ed i Romani non devono pretendere o prendere alcunché delle due parti dei Goti, o i Goti non devono prendere o pretendere alcunché della terza parte dei Romani, eccezion fatta per quello che è stato donato in eccedenza da noi".

"I giudici di ciascuna città, gli intendenti ed i preposti tolgano a quelli che le hanno usurpate le terze parti dei Romani e le restituiscano ai Romani senza indugio con le loro imposte, perché nulla di quel che appartiene al fisco deve deperire; tuttavia, se sono passati quarant'anni, [gli usurpatori] non vengano espulsi".

PROCOPIO DI CESAREA, De Bello Gothico

Le condizioni dell’Italia durante la guerra greco-gotica

[PROCOPIO DI CESAREA, De Bello gothico, I.S.I., lib. II, cap. XX, Roma 1899]

Morto Teodorico (526), il regno ostrogoto si era inabissato in contrasti interni e ciò determinò la sua fine. Se, infatti, in Occidente non esisteva più un imperatore romano, a Costantinopoli vi era pur l’erede diretto di Cesare e di Augusto e la crisi ostrogota fornì l’occasione a Giustiniano per riconquistare l’Italia (oltre l’Africa vandalica e una parte della Spagna). La guerra greco-gotica durò dal 535 al 553: delle tristissime condizioni nelle quali ridusse la penisola italiana è documento eloquente questa pagina di Procopio di Cesarea, testimone diretto degli eventi.

"L’anno avanzava verso l’estate, e già il grano cresceva spontaneo, non in tale quantità però come prima, ma assai minore: poiché non essendo stato interrato nei solchi con l’aratro, né con mano d’uomo, ma rimasto alla superficie, la terra non poté fecondarne che una piccola parte. Né essendovi alcuno che lo mietesse, passata la maturità, ricadde giù e niente poi più ne nacque. La stessa cosa avvenne pure nell’Emilia: per lo che la gente di quei paesi, lasciate le loro case, si recarono nel Piceno pensando che quella regione, essendo marittima, non dovesse essere totalmente afflitta da carestia. Né meno visitati dalla fame per la stessa ragione furono i Toscani; dei quali quanti abitavano i monti, macinando ghiande di quercia come grano, ne facevano pane, che mangiavano. Ne avveniva naturalmente che i più fossero colti da malattie di ogni sorta, solo alcuni uscendone salvi. Nel Piceno dicesi che non meno di cinquantamila contadini romani morissero di fame, ed anche ben molti di più al di là del golfo Jonio. Quale aspetto avessero ed in qual modo morissero, essendone stato io stesso spettatore, vengo ora a dire. Tutti divenivano emaciati e pallidi, e la carne loro mancando di alimenti secondo l’antico adagio, consumava se stessa, e la bile prendendo predominio sulle forze del corpo dava a questo un colore giallastro. Col progredire del male ogni umore veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva come aderisse alle ossa, ed il colore fosco cambiatosi in nero li faceva parere come torce abbrustolite. Nel viso erano come stupefatti e come orribilmente stralunati nello sguardo. Quali di essi morivano per inedia. quali per eccesso di cibo, poiché essendo in loro spento tutto il calore naturale delle interiora, se mai alcuno li nutrisse a sazietà e non poco per volta, come si fa dei bambini appena nati, non potendo essi già più digerire il cibo, tanto più presto venivano a morte. Taluni furono che sotto la violenza della fame mangiaronsi l’un l’altro: e dicesi pure che due donne in certa campagna al di là di Rimini mangiassero diciassette uomini; poiché essendo esse sole superstiti in quel villaggio, coloro che di là viaggiavano andavano a stare nella casa da loro abitata, ed esse, uccisili mentre dormivano, se ne cibavano. Dicono poi che il decimottavo ospite, svegliatosi quando queste donne stavano per trafiggerlo, balzato loro addosso, ne risapesse tutta la storia, ed ambedue le uccidesse. Così dicesi andasse tale cosa. Ben molti travagliati dal bisogno della fame, se mai in qualche erba s’incontrassero, avidamente vi si gettavano sopra, ed appuntate le ginocchia cercavano di estrarla dalla terra, ma non riuscendo, perché esausta era ogni loro forza, cadevano morti su quell’erba e sulle proprie mani. Né vi era alcuno che li seppellisse, perché a dar sepoltura niuno pensava; non erano però toccati da nessun uccello dei molti che soglio pascersi di cadaveri, non essendovi nulla per questi, poiché come ho già detto, tutte le carni la fame stessa aveva già consumato".

GREGORIO DI TOURS, Historia Francorum

La conversione di Clodoveo (496)

[GREGORIO DI TOURS, Storia dei Franchi, II, a c. di M.OLDONI, I, Napoli, 2001, pp. 130-35]

"La regina non smetteva di pregare perché Clodoveo arrivasse a conoscere il vero Dio e abbandonasse gli idoli. Eppure in nessun modo egli poteva essere allontanato da queste credenze, finché un giorno fu dichiarata una guerra contro gli Alamanni, durante la quale egli fu costretto per necessità a credere quello che prima aveva negato sempre ostinatamente. Accadde infatti che, venuti a combattimento i due eserciti, si profilava un massacro e l’esercito di Clodoveo cominciò a subire una grande strage. Vedendo questo, egli, levati gli occhi al cielo e con il cure addolorato, già scosso dalle lacrime, disse: “O Gesù Cristo, che Clotilde [moglie di Clodoveo] predica come figlio del Dio vivente, tu che, dicono, presti aiuto a coloro che sono angustiati e che doni la vittoria a quelli che sperano in te, io devotamente chiedo la gloria del tuo favore, affinché, se mi concederai la vittoria sopra questi nemici e se potrò sperimentare quella grazia che di te dice d’aver provato il popolo dedicato al tuo nome, io possa poi credere in te ed essere così battezzato nel tuo nome. Perché ho invocato i miei dei ma, come vedo, si sono astenuti dall’aiutarmi; per questo credo che loro non posseggano alcuna capacità, perché non soccorrono quelli che credono in loro. Allora, adesso, invoco te, in te voglio credere, basta che tu mi sottragga ai miei nemici”. E dopo aver pronunciato queste frasi, ecco che gli Alamanni si volsero in fuga, e cominciarono a disperdersi. Poi, quando seppero che il loro re era stato ucciso, si sottomisero alla volontà di Clodoveo dicendo: “Ti preghiamo, non uccidere più la nostra gente: ormai siamo in mano tua”. Ed egli, sospese le ostilità, parlò all’esercito e, tornando in pace, raccontò alla regina in qual modo meritò d’ottenere la vittoria attraverso l’invocazione del nome di Cristo. Allora la regina comanda di nascosto al santo Remigio, vescovo della città di Reims, di presentarsi, pregandolo d’introdurre nell’animo del re la parola della salvezza. Giunto presso di lui, il vescovo cominciò con delicatezza a chiedergli che credesse nel Dio vero, creatore del cielo e della terra, che abbandonasse gli idoli, i quali non possono giovare né a sé né ad altri. Ma Clodoveo rispondeva: “Io ti ascoltavo volentieri, santissimo padre; ma c’è una cosa: l’esercito, che mi segue in tutto, non ammette di rinunciare ai propri dei; eppure, egualmente, io vado e parlo a loro secondo quanto m’hai detto”. Trovatosi quindi con i suoi, prima ch’egli potesse parlare, poiché la potenza di Dio lo aveva preceduto, tutto l’esercito acclamò all’unisono: “Noi rifiutiamo gli dei mortali, o re pio, e siamo preparati a seguire il Dio che Remigio predica come immortale”. E queste decisioni vengono annunziate al vescovo, che, pieno di gioia, comandò che fosse preparato il lavacro. Le piazze sono ombreggiate di veli dipinti, le chiese sono adornate di drappi bianchi, si prepara il battistero, si spargono balsami odorosi, risplendono i ceri fragranti di profumo e tutto il tempio del battistero è soffuso d’una essenza quasi divina e in quel luogo Dio offrì ai presenti la grazia di sentirsi posti fra i profumi del paradiso. Allora il re chiede d’essere battezzato per primo dal vescovo. S’avvicina al lavacro come un nuovo Costantino, per cancellare il morbo della lebbra antica, per sciogliere in un’acqua fresca macchie luride createsi lontano nel tempo. E, quando Clodoveo fu entrato nel battesimo, il santo di Dio così disse con parole solenni: “Piega quieto il tuo capo, o Sigambro; adora quello che hai bruciato, brucia quello che hai adorato”. Il santo Remigio era vescovo di grande scienza ed assai istruito negli studi retorici, ma anche tanto elevato in santità da poter essere paragonato a Silvestro nei miracoli. Esiste infatti ora un libro intorno alla sua vita che racconta come egli risuscitò un morto. Così il re confessò Dio onnipotente nella Trinità, fu battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e venne segnato col segno del sacro crisma col segno della croce di Cristo. Del suo esercito, poi, ne vennero battezzati più di tremila. Fu battezzata anche sua sorella Albofleda, che non molto tempo dopo migrò a Cristo. E per lei il re si rattristò e il santo Remigio gli inviò una lettera consolatoria che esordiva in questo modo: “Mi duole, tanto mi duole la ragione della vostra tristezza, perché vostra sorella di buona memoria, Albofleda, è trapassata. Ma possiamo consolarci perché ella lasciò questo mondo in tale stato che dobbiamo noi più invidiarla che piangerla”. Poi si convertì anche l’altra sorella di Clodoveo, di nome Lantechilde, che era caduta nell’eresia degli Ariani, e fu battezzata, dopo aver confessato che il Figlio è uguale al Padre ed allo Spirito Santo".